02 aprile 2007

Rassegna Stampa: La Dalia Azzurra

Mi è difficile parlare della ristampa de La dalia azzurra, di Filippo Scòzzari da Raymond Chandler, perché temo il trabocchetto dei ricordi – quell’effetto un po’ perverso per cui, se hai amato qualcosa da giovane, continuerai poi a trovarlo bello, indipendentemente dal fatto che oggi potresti, magari, avere tutt’altra opinione in merito. Tanto collezionismo, fumettistico e non, si basa sul trabocchetto dei ricordi, e sulla loro misteriosa fiamma! Naturalmente, io sono assolutamente convinto che Scòzzari sia uno dei migliori autori di fumetti che si siano letti in Italia. Ma per fugare sia a me stesso che ai miei lettori il dubbio che questa convinzione non sia già in sé un effetto nostalgico, voglio dedicare questo spazio ad argomentare questa tesi. E lo farò in due modi: raccontando prima che cosa ha fatto Scòzzari, e per quale ragione ho amato i suoi fumetti; e commentando poi criticamente questo suo testo, magari non evitando qualche cattiveria scaramantica. Scòzzari nasce fumettisticamente a metà degli anni Settanta, quando inizia a pubblicare su “Il Mago”. “Il Mago” era la risposta mondadoriana a “Linus” (insieme ad “Alterlinus”) ed “Eureka”, le prime cosiddette riviste d’autore nel mondo del fumetto italiano. Poi prosegue pubblicando altre storie sulla stessa “Alterlinus”.
Quando arriva il Settantasette, Scòzzari si trova a Bologna, e insieme ad Andrea Pazienza, Stefano Tamburini, Massimo Mattioli e Tanino Liberatore, fonda una rivista propria, “Cannibale”. “Cannibale” non vivrà a lungo, ma dalla stessa matrice usciranno prima il settimanale satirico “Il male”, prototipo di tutti i successivi settimanali italiani di satira, e poi “Frigidaire”. Dire che Filippo Scòzzari si trova in quel periodo al centro del rinnovamento del fumetto italiano è dire una cosa imprecisa; in un certo senso, infatti, Scòzzari è lui stesso il centro. È la nota di rottura, è la spinta propulsiva, è quello che si fa il mazzo per organizzare, quello che si spende perché le cose si realizzino. Non è Andrea Pazienza, con il suo virtuosismo quasi inumano, ma è quello che al giovane Paz insegna un sacco di cose. Non è un disegnatore straordinario – pur cavandosela comunque niente male – ma è un narratore di quelli che, tra chi lo conosce, fanno epoca. Insomma, quanto fu in seguito chiamato Nuovo Fumetto Italiano – e fu davvero un momento in cui il genio a fumetti si sprecò – dovette moltissimo a Scòzzari, al suo spirito irriverente, alla sua resistenza ai compromessi, e alla sua intelligenza sottile. The Blue Dahlia, pubblicata originariamente su Frigidaire nel corso del 1981, rappresenta un caso particolare nella carriera di Scòzzari, il quale prova, per la prima volta, a cimentarsi con la sceneggiatura di qualcun altro. The Blue Dahlia era infatti lo script scritto da Chandler per un film hollywoodiano, con tanto di indicazioni di inquadratura e dialoghi. A quanto racconta Oreste Del Buono nell’introduzione al volume di oggi, fu egli stesso a passarla a Scòzzari, il quale dimostrò immediato entusiasmo. L’hard boiled era un genere che muoveva l’immaginario, in quel periodo, di Scòzzari come di tutti – e nessuno dimenticava che l’Alack Sinner di José Muñoz e Carlos Sampayo (un vero cult di quegli anni per tutti i giovani fumettisti italiani) proveniva proprio da lì. A quanto pare, Scòzzari iniziò così a lavorare, fedele alla sceneggiatura di Chandler. Ma qualcosa non funzionava. Allo spirito provocatorio di Scòzzari, evidentemente, il perbenismo di Chandler iniziò ad apparire progressivamente sempre più pesante. Eppure il lavoro doveva essere portato avanti. Ecco quindi che tra la sceneggiatura e il suo interprete sembra aprirsi una frattura, che diventa sempre più marcata man mano che si avanza. I dialoghi si fanno più sarcastici col progredire delle pagine; i personaggi comprimari prendono aspetti paradossali; ma è soprattutto nei brevi riassunti delle puntate precedenti che Scòzzari sfoga genialmente la propria frustrazione.
Il risultato è al tempo stesso la versione a fumetti della sceneggiatura di Chandler e il racconto di una disillusione, quella che il genere hard boiled potesse avere in sé la forza di caricarsi delle problematiche di quegli anni. Gli stessi Muñoz e Sampayo, in quel periodo, avevano già trasformato la propria serie in tutt’altra cosa; ma il povero Scòzzari, che era evidentemente impossibilitato a seguire il loro esempio, si ritrovò in questo modo a detestare la propria opera nel momento stesso in cui doveva continuare a produrla. Insomma, forse La dalia azzurra non è il fumetto migliore prodotto da Filippo Scòzzari, perché esibisce in misura eccessiva il distacco tra una mitizzazione e il suo quotidiano ridimensionarsi. Ma resta comunque un testo bello e carico di significato, pure al di là della sceneggiatura chandleriana. Che poi, per me come per altri, questa possa essere pure una sorta di madeleine, non è in fin dei conti un semplice fatto personale: c’è un pezzo di storia del fumetto italiano, lì dentro. E c’è un pezzo di quell’immaginazione al potere che negli anni Settanta si credeva di stare edificando, e nel corso degli Ottanta rotolava invece, un giorno dopo l’altro, sempre più giù, sempre più verso la fine di un’epoca.

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